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Per iniziare, volevo chiederti di presentarti, dirci chi sei e in cosa consiste il lavoro della sarta di scena.
Allora, io sono Paola Landini, ho 39 anni e da quando ne avevo 21, cioè da quando frequentavo l’università a Firenze come tecnico di costume per lo spettacolo, ho iniziato a fare il lavoro della sarta di scena. L’università, infatti, ci forniva delle conoscenze generali applicabili poi sia alle figure dei tecnici di palcoscenico (la sarta di scena rientra in questa categoria, anche se ancora oggi difficilmente si attribuisce alla sarta il ruolo di “tecnico”!) sia di creativi, ovvero di costumiste, che insieme al regista disegna e progetta i diversi spettacoli. Per attitudini personali, sono diventata una tecnica e non una creativa, e quindi lavorare dietro le quinte per la realizzazione dello spettacolo che viene progettato. La definirei proprio come una passione: appena sali sul palcoscenico rimani intrappolata dal fascino.
Nel definire la figura della sarta di scena, mi preme sottolineare che corrisponde a un preciso ruolo – che consiste nel creare i costumi o nell’aiuto per la messa in scena, preparazione dei costumi e assistenza nei cambi di costume – in un determinato spazio – ovvero il palcoscenico (la scena si riferisce appunto a quest’ultimo). A questo mestiere si affianca l’attività della sartoria teatrale, che ha luogo nei laboratori dove si realizzano e rielaborano costumi che poi verranno noleggiati o venduti direttamente alle produzioni teatrali, cinematografiche o televisive.
Quando è nato il collettivo Sarte di Scena e quali scopi si proponeva?
Innanzitutto, va detto che Sarte di Scena nasce prima della pandemia, come un gruppo di sarte e sarti da tutta Italia che si sono conosciuti durante le proprie attività, lavorando spesso in tournée e diversi progetti in diverse città. All’interno di questo gruppo, quindi, si scambiano e condividono principalmente lavori, conoscenze o anche i “saperi” dei vari mestieri. L’arrivo del Covid-19 ha drasticamente cambiato la situazione. Era il 23 Febbraio 2020, ricordo ancora la data, quando in Lombardia e a altre regioni del nord Italia si sono fermati tutti gli eventi. Quel pomeriggio ero in teatro e ci comunicarono che non saremmo potute andare in scena, altrimenti sarebbe arrivato l’avviso di garanzia e ci sarebbero state conseguenze legali e penali per tutti a causa di un’ordinanza improvvisa arrivata quello stesso giorno. Da quel momento è stato difficile capirci qualcosa: nessuno sapeva cosa sarebbe successo, e molti di noi si sono trovati improvvisamente senza lavoro e lasciati a casa. Qualche aiuto sporadico fino alla conclusione dei contratti, dopo i quali non si ha in mano più niente. È in questo contesto di insicurezza lavorativa e incertezza economica che Sarte di Scena diventa improvvisamente oltre che luogo di scambio e di conoscenza anche luogo di mutuo soccorso e sostegno. Da quel momento è iniziato quello che definirei un percorso politico, con anche una grande manifestazione a maggio del 2020. Io ho partecipato a quella di Milano, ma ci sono state altre mobilitazioni nelle altre regioni, che seppur chiuse per la situazione pandemica hanno dialogato e costruito un percorso comune tra di loro. In queste manifestazioni è stato rivendicato il valore della nostra professione e il nostro posto all’interno della società, non solo come lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, ma anche come precari del mondo del lavoro. Molti di noi, appunto, si sono trovati senza niente, senza garanzie, senza soldi e senza lavoro. Da qui nasce la necessità di lottare per il nostro impiego.

Da un punto di vista legale, come sono definiti i contratti del mondo dello spettacolo? Come funziona il mercato del lavoro?
Tendenzialmente è possibile essere un libero professionista e avere la partita iva, anche se nell’attività delle sarte di scena, o del tecnico dello spettacolo in generale, questo avviene raramente e per lo più per le cooperative di servizi. Nei creativi, invece, come costumisti, scenografi e registi, è più comune. Per noi tecnici dello spettacolo, comunque, gli impieghi nel teatro o produzioni cinematografiche e televisive sono prevalentemente contratti a tempo determinato. Questi contratti, in ogni caso, variano in base a dove svolgi il lavoro. Per esempio, io sono attiva primariamente alla fondazione lirica di Verona, che segue e applica paghe stabilite attraverso i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) delle Fondazioni Lirico Sinfoniche, che comprendono 14 grandi teatri, tra cui la Scala di Milano, l’Opera di Roma, la Fenice di Venezia, etc. Ci possono essere anche altri CCNL, come quelli dei Teatri Stabili o dei teatri medio-piccoli. Trasversalmente poi ci sono anche le scritture private, che non seguono nessuna paga stabilita, ma sono un accordo diretto tra il lavoratore e il datore di lavoro. Insomma, ci sono molti ambiti con criteri, diritti e doveri diversi per lavori simili se non uguali. Sarte di Scena in questo è molto utile, in quanto consente di scovare più facilmente delle insidie che possono trovarsi nei vari contratti che si firmano. Abbiamo infatti un database all’interno del quale sono inseriti i vari CCNL e contratti dei lavori privati che svolgiamo, con i dati personali oscurati, per consentire a chiunque abbia un minimo dubbio di chiedere o controllare autonomamente i proprio diritti, che nel nostro settore spesso si tenta di violare.
All’interno del mondo dello spettacolo si parla tanto anche di lavoro intermittente? Cosa puoi dirmi su questa tipologia di contratto? Differisce o si sovrappone ai contratti a tempo determinato?
Sì, sono due cose diverse. Il contratto a tempo determinato prevede una quantità definita di ore giornaliere o settimanali ed ha una durata precisa, con tutti i diritti del caso, dal giorno libero alle ferie, per quanto ci siano sempre tentativi di aggirare la legge e i nostri diritti. Il lavoro intermittente, invece, in Italia è più comunemente conosciuto come lavoro a chiamata, ovvero un contratto valido per un determinato periodo (che può variare da settimane ad anni) e all’interno del quale sono i datori di lavoro a decidere quando il lavoratore è utile e va chiamato; può quindi succedere che una settimana si lavori solo due giorni, mentre un’altra tutti i sette giorni settimanali. Questi contratti intermittenti, o a chiamata, sono stati particolarmente problematici durante il periodo di chiusura dovuto alla pandemia, perché questi spesso possono essere anche a tempo indeterminato. Questo significa che legalmente si possiede un contratto fisso, ma che se il lavoro è carente non si riceve alcuna paga o sostegno economico, come ad esempio la disoccupazione. Insomma, questi lavoratori, pur essendo di fatto senza lavoro, non hanno ricevuto alcun sostegno economico statale, perché per lo Stato non risultavano disoccupati. È doveroso precisare anche che quando si parla di lavoro intermittente, in Italia spesso lo si confonde con il paradigma legale francese, che si basa su un sistema di welfare applicato ai lavoratori del mondo dello spettacolo molto più strutturato del nostro. In Francia, infatti, raggiunte le 507 ore annuali, i lavoratori dello spettacolo hanno una garanzia e copertura per i periodi di studio e preparazione, a differenza dei contratti classici di lavoro che retribuiscono unicamente la fase finale del lavoro dello spettacolo. Durante il l’apice della pandemia abbiamo preso questo modello francese come riferimento delle nostre richieste, anche se per il momento siamo riusciti a fare solo dei piccoli, ma comunque validi, passi in avanti, come il riconoscimento dei contratti intermittenti da tempo indeterminato a determinato oppure come l’introduzione di quello che viene chiamato reddito di discontinuità – che però è solo formalmente ispirato al modello francese e di base rimane ancora impostato come una disoccupazione che premia chi lavora di più, non chi ha maggiore bisogno (ovvero chi lavora meno sotto contratto alla preparazione e ideazione degli spettacoli).

Quali sono le vostre rivendicazioni? Cosa proponete di cambiare?
Nei due anni di manifestazioni durante la pandemia le nostre rivendicazioni principali non erano bonus casuali e sostegni sporadici, ma ci eravamo fatti portavoce di richieste di più ampio respiro, che miravano a un cambiamento sistemico. Col Covid-19 è diventato evidente, infatti, che quel sistema di lavoro con i contratti di cui abbiamo parlato prima non è adatto e pronto a sostenere un evento dalla portata della pandemia. E non riguarda solo il settore dello spettacolo, ma molti altri ambiti, dal giornalismo ai ricercatori universitari, e in generale tutti i lavori precari. La pandemia ha scoperchiato, secondo me, l’enorme e sempre più vasto problema del precariato in Italia. Bisogna iniziare ad affrontare questa drastica riduzione dei contratti fissi e pensare a delle misure per tutelare lavoratrici e lavoratori precari nell’evenienza drammatica, ma non solo, di un altro evento della portata della pandemia.
Nella pratica, mi viene subito in mente quando nel 2021, insieme ad altre colleghe del campo, abbiamo deciso di intraprendere un’azione un po’ più forte, insediandoci all’interno del cortile del Teatro Piccolo di Milano (uno dei teatri più importanti d’Italia con un grande sostegno e finanziamento economico da parte dello stato italiano). Siamo rimasti per un paio di mesi e ogni giorno abbiamo organizzato conferenze e incontri con la cittadinanza, oltre che con colleghi e colleghe di Milano e non solo. Durante questa occupazione abbiamo deciso di impegnarci tutti insieme alla creazione di una vera e propria proposta di legge che potesse coprire le necessità comuni ai vari settori dello spettacolo, che comunque rimangono molto eterogenei sia come modello di lavoro sia come contratti. Vari coordinamenti regionali dello spettacolo poi sono riusciti a presentarla in parlamento alla commissione cultura, oltre che direttamente ad alcuni senatori e deputati all’interno del teatro stesso. Nonostante questo, la proposta non è stata tenuta affatto in considerazione nel momento di riscrittura dei CCNL, che invece ha principalmente seguito i suggerimenti e le proposte delle commissioni stesse e dei datoriali. Noi comunque continuiamo a presentare questa proposta di legge, anche perché non si tratta di una proposta utopica, ma di un’idea nata dal basso e dalla solidarietà tra settori.
Tornando ai CCNL (Contratti Collettivi di Lavoro), che nominavi prima, ci sono stati dei miglioramenti significativi o solo irrisori? Riguarda tutti i settori del mondo dello spettacolo in egual misura? E come definiresti il dialogo con i sindacati al momento?
Posso iniziare facendoti un esempio recentissimo. Qualche mese fa nell’audiovisivo c’è stato un rinnovo del Contratto Nazionale per il cinema, alla stesura del quale hanno partecipato le nostre colleghe e colleghi insieme ai sindacati, ai datoriali e a legislatori, rimanendo anche soddisfatti del risultato ottenuto, e conquistando maggiori tutele, soprattutto sulla scia degli scioperi di Hollywood riguardanti l’Intelligenza Artificiale. Un altro esempio recente riguarda il mio ambito, quello delle fondazioni lirico-sinfoniche. In questo caso, però, la riscrittura del CCNL ha ottenuto risultati minimi rispetto alle aspettative dei lavoratori, soprattutto perché, considerata l’alta partecipazione statale al FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) a cui questi grandi teatri lirici fanno riferimento, è sempre difficile riuscire ad alzare e migliorare significativamente le condizioni salariali di questi contratti.
Per quanto riguarda, invece, i sindacati, io personalmente non ho mai voluto iscrivermi a nessuna sigla, perché non riesco più a riconoscere quella lotta fortissima degli anni ‘60 e ‘70. Per quanto ripeta sempre che il sindacato è fatto da lavoratori e lavoratrici e che non è bene generalizzare, è innegabile che i sindacati abbiano perso la loro forza davanti ai lavoratori e che si trovino in una posizione molto ambigua. Infatti, in questo periodo i sindacati, a partire dalla CGIL che è il più grande, fanno molta fatica, e in molti casi secondo me cercano troppo di avvicinarsi alla parte datoriale per evitare situazioni di rottura, ottenendo inevitabilmente molte meno conquiste. È il risultato diretto dell’abbandono di quell’approccio che faceva del conflitto e del confronto, attraverso barricate e scioperi di grandezze oggi inimmaginabili, la sua forza centrale. Certamente durante la pandemia ci si è aiutati e ci siamo avvicinati più di prima, ma purtroppo in molti casi era solamente per una mera questione economica. Appena sono riprese le riaperture, la nostra capacità di unirci, collegarci e solidarizzare è svanita. Adesso continuiamo a fare riunioni su zoom con colleghe e colleghi di tutta Italia, alcuni dei quali sono in costante contatto con la politica, ma la forza numerica dei tempi del covid si è notevolmente ridotta. Nonostante questo, anche i sindacati hanno capito che se vogliono mantenere la loro rilevanza tra i lavoratori è necessario, in questa fase, coinvolgere anche autorganizzati e associazioni di categoria, ovvero tutti coloro che non fanno riferimento a una precisa sigla sindacale ma che vogliono avere voce e considerazione.

Diresti che nel mondo dello spettacolo la competizione tra lavoratori è molto alta e incentivata?
Sicuramente c’è una competitività molto forte. Ma ci sono delle eccezioni che fanno ben sperare. In particolare, mi riferisco alla GKN a Campi Bisenzio (FI), un’azienda che in questo periodo fa parlare molto di sé. I lavoratori della GKN sono stati capaci di creare veramente una situazione nuova e meravigliosa per questi tempi, un esempio nazionale e internazionale da seguire e che va avanti da più di due anni. Sono riusciti a dare vita a una collaborazione fra lavoratori e lavoratrici che, attraverso picchetti e manifestazioni, tentano di trasmettere un messaggio importante, che non si limita solo al fatto di essere stati licenziati, ma che comprende anche problematicità sempre più rilevanti per il mondo del lavoro in generale, come la delocalizzazione, i diritti sul lavoro, gli orari di lavoro e le paghe. Purtroppo, nello spettacolo è più raro ritrovare una solidarietà così forte, anche perché non lavoriamo come gruppo aziendale, ma siamo più sparsi e meno coesi. La Scala è l’unica eccezione, con circa 900 dipendenti fissi a tempo indeterminato, ai quali si aggiungono tutte le persone assunte a tempo determinato, che sono molto sindacalizzati e attivi nella lotta per i loro diritti. Ma per tutti i restanti lavoratori dello spettacolo è sempre molto difficile creare dei rapporti di vera e duratura solidarietà, a causa del frequente cambiamento di colleghi e luoghi di lavoro, risultato degli obbligati spostamenti per seguire le diverse tournée teatrali.
Notando il nome del gruppo (Sarte di Scena), mi chiedevo se la scelta del femminile fosse mirata a sottolineare una discriminazione di genere esistente tra sarte e sarti oppure è dovuta a motivi diversi?
Abbiamo operato la scelta di chiamarci Sarte di Scena volontariamente. Questo non vuol dire che all’interno del gruppo non ci siano anche uomini che svolgono questo lavoro, per quanto sempre in proporzioni ridotte. In generale, il lavoro della sarta è un lavoro che viene percepito e considerato fondamentalmente come femminile, e per questo storicamente pagato meno. Solo dei cambiamenti recenti hanno permesso di fare dei passi avanti. Basti pensare che fino ai primi anni duemila, le sarte erano spesso semplicemente parenti o conoscenti di attori o membri di una produzione teatrale. Dagli anni duemila, però, questo mestiere è diventato sempre più professionalizzato, tanto che adesso per poter svolgere il mio mestiere, come tanti altri ruoli tecnici all’interno di uno spettacolo, è necessario avere molta esperienza in ambiti diversi o possedere una laurea. Insomma, questo lavoro è diventato una professione vera e propria, che però fa ancora fatica ad essere riconosciuta, sia in termini di rilevanza che di salario. Ancora oggi, purtroppo, succede che vengano assunti dei sarti che ricevono da subito una paga più alta semplicemente in quanto uomini. Quindi, il nome Sarte di Scena è certamente frutto di una decisione rivendicazione politica contro un sistema profondamente patriarcale che ha sempre discriminato il nostro lavoro come un hobby o semplice lavoro accessorio, riassumibile nell’espressione “tutte le donne sanno attaccare un bottone”.
Ti ringrazio per la tua disponibilità e questa chiacchierata, e concludo chiedendoti se senti di voler aggiungere qualcosa di importante per te che ritieni non sia emerso (abbastanza) in questa intervista.
Volevo solo dirti che indipendentemente da tutto, il lavoro che ho scelto è un lavoro estremamente emozionante, e bisogna avere della passione sincera per poterlo svolgere. Ho scelto di seguire le mie passioni e portarle avanti, diventando parte attiva di quel gruppo impegnato del mondo della cultura che mira sempre all’indagine di sé stesse e del mondo circostante, che sia passato, presente e/o futuro. Posso dire di essere fiera ed orgogliosa di far parte di questo mondo che può dare alle persone un motivo per uscire di casa e confrontarsi con gli altri, guardando artisti che dai palcoscenici raccontano delle storie che fanno riflettere. Sono fiera di esserne parte da dietro le quinte, di sostenere questi messaggi e questo lavoro appassionante, che spero venga prima o poi riconosciuto, anche in termini economici e contrattuali.
In copertina: Manifestazione del 30 Maggio 2020
Crediti immagini: foto scattate da Paola Landini
