IN PRIMA LINEA
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C’è un dipinto di Hakuin Ekaku (1686-1769) con due uomini chini su un ponte di legno che mi ha sempre affascinato. I due uomini si guardano intorno, procedono a tastoni, un passo alla volta, toccando tutto ciò che possono, cercando di strappare alle tenebre e imprimersi nella mente quel poco che basta per arrivare dall’altra parte sani e salvi. I due uomini sono ciechi. Così sono io.
“Ma perché proprio giapponese?”. Da quando mi sono iscritto all’università questa domanda mi è stata posta più volte di quante una genuina curiosità giustificherebbe. Ora, lungi da me mettere in scena uno show di autocommiserazione (per cui potrei ambire all’Oscar e al premio della critica, chi mi conosce lo sa), in queste poche righe vorrei spiegarti perché stare in bilico tra due culture è tanto, tanto difficile, e il rischio di cadere giù, facendo scivoloni (fisici e non), è sempre dietro l’angolo.
Dunque, “ma perché proprio giapponese” dicevamo. C’è qualcosa che mi ha sempre infastidito riguardo a questa domanda, anzi, riguardo al tono della domanda. È quell’enfasi smodata sul “proprio”; quel tono tronfio di altezzosità da boomer dal qualunquismo facile che vuole dire tutto di tuttə, e finisce con il dire di tuttə le stesse cose, come un jukebox rotto, fermo agli anni ’60 in un mondo che segue un ritmo diverso.
Ma scopriamo gli altarini. Ecco la traduzione della frase, testo, intertesto, e sottotesto alla mano: “caro idiota umanista, c’è qualcosa di profondamente sbagliato in te se a vent’anni scegli di rifiutare la tua sana cultura italiana e di mandare a farsi benedire anni di Manzoni, Tasso, Petrarca, Botticelli, Da Vinci, Benigni, le Winx, pizza, pasta e mandolino inclusi e chi ne ha più ne metta”.

E il capo d’accusa è doppio: non c’è solo il delitto, tutto umanista, di “studiare quello che piace”, ma anche quello di averlo fatto nel peggiore dei modi, rinnegando la buona educazione da rispettabile borghese europeo per studiare una cultura “aliena”, “barbara”, “inferiore” o, nel più roseo degli scenari, “ignota”. Diciamolo chiaramente: scegliere di studiare l’Asia comporta una messa in discussione di gerarchie pregne di orientalismo, nazionalismo e una buona dose di campanilismo culturale e come qualsiasi rivoluzione che si rispetti non può che essere scomoda e fare rumore.
Studiare il Giappone non è che sia facile poi. Tanto per cominciare c’è questa lingua infernale che ti dà filo da torcere per anni, con un alfabeto per le particelle, un altro per le parole straniere e un altro, infinito, venuto direttamente dalla Cina a spezzare l’ego dei peggiori language overachiever di Duolingo con valore sia fonetico che semantico. Avete sentito bene: un alfabeto cinese in una lingua tutta giapponese. E poi lo sciroccato sarei io.
Ma ritorniamo al ponte di cui stavamo parlando. Il primo rischio quando si parla di Giappone è quello di dire troppo, così che al ponte nemmeno ci si avvicina, facendosi tutta la traversata, le gite dall’altra parte, e perché no, anche un aperitivo tutto nella propria testa, in una lunga epifania proustiana squisitamente autoreferenziale.
E questo è il rischio dell’accademia. Una volta un professore che stimo molto disse: “mi sapete dire perché la mia laurea in Studi sull’Asia presa a Londra vale più del mio anno in un monastero tailandese?”. Ecco, credo che le sue parole catturino efficacemente la contraddizione di fondo che attraversa gli “studi d’area”: quella di parlare da una prospettiva europea, di qualcosa di “distante”, e per di più dalla bolla dell’accademia, magari senza averla nemmeno vista col cannocchiale l’area in questione. La domanda sorge quindi spontanea: date queste premesse, è ancora lecito dire qualcosa?
Eppure sul Giappone tuttə dicono di tutto. Come se la traversata del ponte non fosse già abbastanza ardua, si è martellati da luoghi comuni da tutte le parti, tanto da dare gli scacchi al Waka Waka di Shakira ai tempi d’oro. Ecco alcuni dei campioni degli ultimi mesi: ”vedrai lì come sono quadrati, i giapponesi lavorano come muli”, “se vai là ti trovi una geisha e ti serve per tutta la vita”, “lì sono tutti educati, puoi anche lasciare il portafoglio per strada e ce lo ritrovi”, “per forza trovi la pizza a Tokyo: hanno copiato tutto ‘sti giapponesi’ ”, “il Giappone: l’Oriente magico dove natura e tecnologia convivono in armonia”, e altre perle partorite dai peggiori incubi orientalisti, in un bipolarismo di eterofilia ed eterofobia del che farebbero rigirare Said nella tomba.

Complici l’antropologia della “distanza” di Benedict Ruth (Il crisantemo e la spada, 1946), e il successo delle teorie sulla “giapponesità” (Nihonjinron) sviluppatesi dal dopoguerra. Quando si parla di giapponesi non sembra esserci via di mezzo: ipertecnologici o tradizionalisti, pigri imitatori o lavoratori instancabili, fieri samurai o docili geisha, kawaii o rigidi conservatori, zen o Pokémon. E ancora: “Occidente” “razionale”, “moderno”, “innovatore”, “maschile”, “individualista” e “Oriente” “irrazionale”, “superstizioso”, “mistico”, “femminile” e “gruppista”. E io sto sotto il fuoco incrociato, sperando che il ponte non si spezzi a forza di allontanarlo questo Giappone, quasi a metterlo sempre troppo in alto o troppo in basso, che poi non ci si arriva più.
Ma la difficoltà più grande non è nemmeno questa a dire il vero. C’è quel funambolico gioco di equilibrismo tra una cultura e l’altra, quel voler conoscere il Giappone che una storiografia eurocentrica ha relegato a niente di più che qualche foto della bomba atomica nei libri di storia; quel voler andare oltre una miope narrazione orientalista che non vede oltre le sue geisha, il tè, i manga e i samurai; quel voler, in sintesi, uscire dai limiti della propria di cultura, mai rinnegando, ma sempre amando, di un amore consapevole, tormentato e bellissimo che vuole sempre conoscere e non giudicare, un amore, come cantava Katy Perry nel 2013, incondizionato. La difficoltà, in sintesi, sta in questa intricata faccenda di voler rendere vicino il lontano comprendendo, studiando (ma non troppo!) e rispettando la lontananza al tempo stesso. E chi lo ha detto che sarebbe stato facile?
All’inizio vi ho detto che io sono come i due ciechi nel quadro di Ekaku: mettendo da parte la mia terribile miopia, la ragione è che come il cieco continua a cercare l’illuminazione, così io, italiano e italofono, studente, in bilico tra accademismo e Orientalismo, bersagliato da boomer bisbetici e nippofili sfegatati, tra il dire troppo e il dire male, cerco ancora di dire qualcosa sull’altro, di conoscerlo, di parlarci, perché so che il silenzio, quello sì che fa paura e i ponti li fa crollare.
“Ah adesso mi diventi giapponese”. No, papà sto ancora sul ponte, cercando di non cadere giù, ma guarda che prima o poi ritorno e ti racconto tante belle cose.
Foto di Michelangelo Nardi
Foto di Michelangelo Nardi
