Il Giappone oltre le metropoli e gli stereotipi – V

Il Monte Kōya

tempo di lettura: 5 minuti

A novembre, finalmente l’estate umida e il rischio tifoni erano finiti davvero, lasciando spazio all’autunno. 

L’autunno giapponese è meraviglioso. Lascia senza fiato, più della primavera e dei ciliegi in fiore. Quando, a metà novembre, sono arrivata sul Monte Kōya, i colori erano così brillanti che pensavo di trovarmi dentro un dipinto. In molti mi avevano consigliato questa destinazione, ma avevo letto pareri discordanti e, comunque, qualsiasi aspettativa non avrebbe potuto prepararmi alla bellezza di quei colori.

Il Monte Kōya si trova nella prefettura di Wakayama, a sud di Osaka, e per raggiungerlo è necessario prendere un treno locale che si arrampica sulle montagne fino a un punto non ben definito, da cui la salita diventa troppo ripida ed è quindi necessario cambiare mezzo e percorrere l’ultimo tratto su una funivia. Dopo aver lasciato la zona metropolitana di Osaka, il panorama inizia a colorarsi di rosso, verde e arancione. Giunti sulla cima, nonostante si tratti di “soli” 1885 metri, l’aria è completamente diversa, il cielo è più limpido e i colori sono più accesi. A Tokyo, il picco dei colori autunnali era ancora lontano, quindi non ero pronta a questa esplosione di colori caldi, e nemmeno al freddo invernale che mi aspettava sulla cima.

La fama del Kōya-san è principalmente dovuta al buddhismo: infatti, è considerato un monte sacro e ospita vari templi molto importanti. La cosa spettacolare di questo posto non è solo la sua posizione poco accessibile e incastonata tra i boschi, ma soprattutto la possibilità di pernottare in un tempio e sperimentare la vita da monaco buddhista. 

Grazie a un corso sul buddhismo che avevo seguito durante la mia esperienza di scambio presso la Keio University, avevo iniziato a imparare di più su questa religione, che forse non è nemmeno corretto chiamare “religione”, e avevo scoperto la meditazione, che praticavo una volta a settimana insieme ad altri compagni di corso, guidati dal nostro professore in un piccolo tempio vicino alla Tokyo Tower. Ovviamente, la mia era solo un’infarinatura e certamente non una conversione, ma passare una notte in un tempio è stato ancora più speciale, grazie alle conoscenze di base che avevo acquisito sul buddhismo.

Tra gli ospiti del tempio in cui ho pernottato, ero una delle poche occidentali, ma non mi sentivo fuori luogo. Gli ospiti giapponesi sembravano profondamente connessi allo spirito del tempio e del Monte Kōya, e guardavano con occhi gioiosi gli stranieri che avevano deciso di avvicinarsi a questo aspetto della loro cultura. O magari ci sorridevano per nascondere il fastidio di vedere questa destinazione così speciale presa sempre più d’assalto dal turismo di massa, ma mi piace pensare che, invece, provassero simpatia per noi. 

Dopo un giro dei templi principali e migliaia di foto alle foglie colorate, ho raggiunto l’altro lato della cittadina, a circa 15 minuti a piedi, per partecipare a una sessione di meditazione zen per turisti. Si tratta, appunto, di esperienze pensate per i turisti, quindi molte persone partecipano più per la soddisfazione di segnare “meditazione zen in Giappone” sulla loro bucket-list, ma in ogni caso, trovarsi con tante altre persone venute da tutto il mondo, in un’unica stanza a meditare seguendo le indicazioni di un monaco zen, con il vibrante autunno giapponese fuori dalla finestra, è stata un’emozione unica. Sono poi tornata in fretta al tempio, perché la cena veniva servita alle 17, secondo la routine dei monaci che lo gestiscono. Era già molto freddo perché il sole stava tramontando, e nel tempio non c’era il riscaldamento, trattandosi di un lusso non previsto dalla vita monacale. La cena è stata incredibilmente buona: la shojin ryori, tipica dei monaci buddhisti, è una cucina completamente vegetariana, che esclude anche alcuni tipi di vegetali, quindi mi aspettavo piatti molto semplici, ma pur trattandosi di ingredienti non particolarmente ricercati, i nostri vassoi erano ricchi e gustosi.

Il giorno dopo, mi sono svegliata alle 5 per partecipare al rito buddhista della mattina. Tutti noi ospiti ci siamo allineati su cuscini e panche, mentre i monaci recitavano dei sutra e svolgevano il loro rito, del quale ho capito poco, ma che ho osservato rapita per tutta la sua durata. Poi, il monaco più giovane ci ha indicato il modo appropriato di alzarci e rendere grazie o pregare per qualcosa: per fortuna, i primi della fila erano clienti giapponesi, che hanno saputo ripetere i movimenti con gran precisione. Noi occidentali li abbiamo imitati meglio che potevamo. 

Finita la colazione – che sembrava una ripetizione della cena della sera prima – mi sono fermata in un konbini per prendere un caffè e poi mi sono incamminata verso il cimitero Oku-no-in, la principale attrazione del Monte Kōya. È un luogo profondamente sacro per il buddhismo Shingon, in quanto si crede che il fondatore di questa corrente, Kōbō Daishi, si sia recato in questo bosco per entrare nella sua meditazione eterna. Ora, si tratta di un sentiero in mezzo al bosco, lungo il quale sono posizionate tantissime pietre tombali, alcune statue dedicate a personaggi importanti e varie pagode. Qui, i colori autunnali sparivano, perché il bosco era composto di abeti, ma l’aria pungente di una mattina di novembre mi ricordava senza alcun dubbio quale fosse la stagione in cui mi trovavo. 

Finita la visita, sono dovuta correre alla fermata dell’autobus per raggiungere la funivia, perché era domenica e le corse erano pochissime: non potevo permettermi di perdere la coincidenza con il treno per tornare a Osaka. Dopo circa 3 ore, ero di nuovo alla stazione di Nanba, una delle più grandi e affollate di tutto il Giappone. Ho camminato per Osaka con grande gioia, perché amo questa città, ma con il cuore ero ancora tra gli aceri rossi e gialli del Kōya-san. Quando, qualche settimana più tardi, il picco dei colori autunnali ha raggiunto Tokyo, ho corso in lungo e in largo per i parchi della città alla ricerca di sfumature altrettanto belle, ma l’atmosfera non era più la stessa. Ora, sogno di tornare al Monte Kōya e di proseguire il percorso lungo sentieri ancora più nascosti nelle montagne della prefettura di Wakayama. 

Il Monte Kōya è l’ultima tappa di questa serie di viaggi verso mete del Giappone meno affollato, meno moderno e meno metropolitano. Pur amando profondamente Tokyo e Osaka, e avendo apprezzato tantissimo anche le altre grandi città che ho visitato, ogni volta che mettevo piede in questi posti più sperduti sentivo di carpire qualche piccolo segreto in più di questo paese così particolare e speciale. So per certo che, per arrivare a capirlo davvero, servirebbero esperienze molto più lunghe di un weekend, e avrei già una lista infinita di posti ancora più sperduti che vorrei visitare; tuttavia, quando a dicembre sono tornata in Italia, sentivo di aver imparato tanto sul Giappone, di essere riuscita a sbirciare dietro la facciata di paese super tecnologico e anche un po’ bizzarro che lo caratterizza, e di averne compreso un po’ di più l’anima.

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