VIA COL VENTI
Tempo di lettura: 8 minuti
Perfect Days è stata acclamata dalla critica come l’ultimo capolavoro di Wim Wenders, regista tedesco celebre soprattutto per la pellicola Il cielo sopra Berlino (1987), premio alla miglior regia del 40° Festival del Cinema di Cannes.
Con Perfect Days, nominato agli Oscar 2024 come miglior film internazionale (ma battuto dal raggelante The Zone of Interest di Jonathan Glazer), Wenders ci regala un tipico slice of life alla giapponese, dove la quotidianità più banale viene fatta risaltare dal silenzio del racconto stesso, rigorosamente narrato per sottrazione.
La storia si dirama intorno a due protagonisti principali: il primo è Tokyo, la megalopoli che fa da sfondo alle vicende narrate, messa in risalto dalla magica fotografia di Franz Lustig; il secondo è Hirayama, cinquantenne giapponese addetto alla pulizia dei bagni pubblici del Tokyo Toilet Project, diramati in 17 aree del quartiere di Shibuya. Koji Yakusho nei panni di Hirayama delizia il pubblico con una classe senza pari, tanto da valergli il premio per migliore attore all’ultimo Festival di Cannes, riconoscimento che un giapponese non riceveva da diciannove anni.
Le giornate del protagonista si susseguono ripetitive e monotone: ogni giorno si alza all’alba al suono della scopa di una vecchia signora che spazza la strada, annaffia le piantine che colleziona, osserva sorridendo il cielo sopra di lui, prende sempre lo stesso caffé alla medesima macchinetta di fronte al suo appartamento, rigorosamente minuscolo ed arredato in modo essenziale, sale in macchina e si avvia verso una nuova giornata di lavoro. Ai bagni pubblici.
A fare da contraltare al silenzio assordante di Hirayama, c’è il giovane collega Takashi, interpretato da Tokio Emoto (qualcuno se lo ricorderà per il suo ruolo nella serie Netflix Il regista nudo). Takashi è il tipico esempio di giovane ingenuo e irresponsabile, che non prende il lavoro così seriamente come fa invece Hirayama, che gli si dedica con un’ossessività alienante anche negli intarsi più nascosti. Alla fine per lui il lavoro non è solo pulire i bagni pubblici: è uno stile di vita, la pulizia e l’ordine come moniti per la sua routine pacata e senza sorprese. Al suo fianco la sua fidanzata Aya, una ragazza con il caschetto biondo interpretata dalla fantastica Aoi Yamada (lo stesso caschetto biondo su Netflix nella serie First Love), che si commuove ascoltando il brano Redondo Beach di Patti Smith in macchina con Hirayama.
Il film adotta un ritmo deliberatamente lento, fornendo così una sottile critica all’incessante frenesia della società moderna. Anche la musica gioca un ruolo importante per ambientare lo spettatore nell’universo del protagonista: ci viene proposta quando si reca a lavoro sul suo furgoncino – quando, infatti, senza cellulare o piattaforme streaming digitali, potevamo ascoltare la musica se non durante un viaggio in macchina? – e si interrompe di colpo quando Hirayama arriva a destinazione, quasi per dare un contorno reale alla musica stessa, parte delle giornate del protagonista.
Accompagnati dalle canzoni di Lou Reed, Patti Smith e Van Morrison, veniamo catapultati in quel mondo anni ‘70 un po’ ingiallito e nostalgico, come in fondo sembra essere la vita di Hirayama stesso. Hirayama, infatti, vive in un passato analogico tutto suo: non solo ha un’estesa collezione di musicassette, ma possiede anche una macchina fotografica analogica con cui si diletta a scattare fotografie alle querce dei parchi, nel tentativo di catturare il perfetto komorebi, parola giapponese che fa riferimento alla luce del sole che traspare dalle foglie degli alberi.
Seguiamo Hirayama nella sua routine “dell’Eterno Ritorno” (per citar Nietzsche), dove nulla accade ma tutto si ripete identico a se stesso, tra una lettura di Le palme selvagge di William Faulkner e “Urla d’amore” di Patricia Highsmith, raccolte di racconti così come ci viene presentata la sua stessa vita, attraverso frammenti di momenti: il bacio rubato di Aya sulla sua guancia che lo fa arrossire, la partita a tris che fa con unə sconosciutə su un foglio nascosto in un’intercapedine di uno dei bagni, la vista di un senzatetto che balla e abbraccia le querce. Ma ciò avviene con una naturalezza e con un’attenzione quasi maniacale verso i dettagli delle piccole cose del mondo tale da restituirci uno spaccato di vita costruito sui vuoti e sulle ellissi. Hirayama infatti è un personaggio taciturno: non aprirà bocca per i primi 40 minuti del film, e anche quando lo fa rimane minimalista persino nelle scelte delle parole.
Una delle citazioni più celebri del film è il discorso che Hirayama fa alla sua nipotina Niko (Arisa Nakano), scappata di casa per sfuggire ai litigi con la madre e alla mondanità della sua vita benestante e trovare così rifugio in quella parca e priva di aspettative dello zio. Durante un giro in bici, Niko propone ad Hirayama di andare al mare, lui risponde di no, e che andranno un’altra volta, e allora Niko gli chiede quando e lui risponde “un’altra volta è un’altra volta – adesso è adesso”. Il dialogo in questo punto sembra un po’ forzato, con i due personaggi che ripetono la stessa frase come un mantra fino al cambio scena, quasi a volerci ricordare costantemente che la vita è adesso, l’hic et nunc rimpastato all’infinito per portarci ad apprezzare la banalità del quotidiano e vivere un’esistenza senza aspirazioni.
Forse uno dei pregi e dei difetti del film di Wim Wenders risiede proprio in questa retorica del life is now, in cui si cerca di beare lo spettatore con immagini, seppur magistrali e profondamente terapeutiche, di una poetica quasi fine a se stessa. Perfect Days può essere definito un “film senza eroi”, dove non c’è nessun colpo di scena, mondi fantastici o vere e proprie trame, quanto più una raccolta di racconti – così come lo sono i libri che legge Hirayama, disseminati per il film – che vogliono cercare di tessere le lodi di una vita banale. Ma è proprio questa banalità, tanto emblematica e commovente, che si riscontra anche nei gesti del protagonista – commuoversi per le cassette che ascolta in macchina, fotografare con una macchina rigorosamente analogica le fronde degli alberi – banalità che dovrebbe invece cedere il posto all’intrusione delle emozioni più profonde, allo spiraglio aperto sui fantasmi e sulle ombre del passato di Hirayama, ai conflitti interiori del protagonista. Tutto questo non ci viene mostrato, se non, appunto, per sottrazione. Anche i suoi stessi sogni sono “analogici”, in bianco e nero, presentati dal regista come rarefatti e confusi, fino a sembrare parodie di film d’arte. Eleganti, certo, ma forse un po’ pretenziosi e inutili.
L’incontro con la sorella (Yumi Aso) e poi il confronto con l’ex marito della proprietaria di un bar (per la quale ci sembra intuire che Hirayama abbia dei sentimenti) affetto da cancro, sono forse le scene più salienti in cui Wenders apre uno spioncino sui chiaroscuri del protagonista. Nel dialogo (o non dialogo) con la sorella intuiamo che Hirayama venisse da una famiglia benestante, come si evince anche dalla posizione della sorella, donna di carriera che arriva alla minuscola casa del fratello con addirittura l’autista. Famiglia abbiente che si crede il protagonista abbia abbandonato, prediligendo invece la semplicità della retorica wabi del buddhismo zen, il concetto della bellezza che si trova nei dettagli imperfetti, nelle cose consumate dal tempo.
E si intuisce anche qualche screzio con il defunto padre, ma nulla di più. Hirayama non parla, non ci trasmette nulla. Solo un grande senso di disagio e sofferenza, tenuti nascosti e ben seppelliti sotto le musicassette ingiallite, pile di libri e gli scatoloni contenenti gli scatti sviluppati e conservati alla ricerca del komorebi.
C’è qualcosa di vagamente consolatorio nell’impotenza e nella solitudine di Hirayama, un uomo che ha smesso di lottare per migliorare la propria condizione, e che ha deciso di chiudersi a riccio nel suo mondo di ombre e giochi di luce per sopportare la realtà che lo circonda, con un sorriso sul viso verso tutti. Ma sarà davvero felice?
In ogni caso Hirayama ha scelto quella vita umile consapevolmente: la routine gli dà serenità e gli permette di seguire le sue passioni ogni giorno. Nell’ultima scena del film, vediamo Hirayama piangere e ridere sulle note di Feelin’ good di Nina Simone, dove Koji Yakusho ci regala una performance insuperabile, toccando tutte le corde giuste per farci commuovere insieme a lui. “Credo che Wim mi abbia deliberatamente lasciato spazio all’interpretazione in quel momento”, spiega l’attore in un’intervista, parlando della difficoltà di plasmare un personaggio così complesso a fronte di pochissime battute. “Ma una cosa la posso dire con sicurezza”, continua, “Le persone non ridono o piangono solo quando sono felici o tristi. Può essere anche il contrario. In quel momento, [Hirayama] poteva star ridendo perché non sapeva il perché stesse piangendo. Ma in un certo senso, credo che avesse un futuro felice. Una vita felice. E per me è stato un momento di grande speranza”.
di Giulia Zanasso
Frame da Perfect Days
