Il Viaggio di un Gwailou (鬼佬)

tempo di lettura: 2 minuti

La retorica celata dietro al concetto di viaggio impregna la nostra generazione profondamente. Perché partiamo, perché andiamo via?

La più bella e tragica riflessione poetica sul significato di viaggio viene a mio avviso dall’omonima poesia di Baudelaire, che in anticipo di secoli riesce a dare voce a quella che probabilmente era all’epoca ancora solo una debole corrente nell’oceano della coscienza collettiva. La conclusione che ne trae, a dispetto della glorificazione odierna, è che l’unico viaggio che valga la pena di compiere è quello verso la Morte, vero orizzonte ultimo di ogni possibilità:

Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?

Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!

È sintomatico della nostra epoca che questa poesia sia spesso confusa da lettori poco attenti con un’ode un po’ naif al viaggio, mentre invece ne rappresenta una condanna quasi metafisica e totale.

Tralasciando le conclusioni più maledette del poeta, bisogna almeno raccogliere i moniti che provocativamente ci lancia dall’aldilà. Riflessioni di questo tipo si muovono in un campo dove l’oggettività è artificio. Quindi non me ne abbiate se non la penso come voi. 

Ma nel caos informe in cui si trova l’uomo odierno, ho sempre avuto la sensazione che viaggiare fosse soprattutto un modo per scappare dall’incertezza che permea la nostra epoca. Un non assumersi alcuna responsabilità. La rinuncia a provare a costruire qualcosa. La frenesia di mille velleità. Vi è questo concetto superficiale di viaggio. “Viaggio per conoscere nuove culture”, ad esempio. Pronunciata da un occidentale, questa frase è comica e inquietante allo stesso tempo. Secoli di soprusi, di imperialismo, di guerre che hanno portato l’Occidente a regnare sul mondo, distruggendo le culture locali (quelle vere, non quelle scimmiottate post-globalizzazione che il tipico studente internazionale di buona famiglia vuole andare a “conoscere”). Ora però ci siamo ravveduti e andiamo dall’altra parte del mondo, quasi scusandoci, perché in fin dei conti ci eravamo sbagliati, non eravate poi così male; anzi potreste magari tornare ad essere come prima? Mi servirebbe quel tocco esotico alle mie foto che va tanto sui social – Conoscere, svelare, violare. Una Lonely Planet non è il Milione.

Ma poi, pensandoci, conoscere che cosa? L’ultimo parto dell’Occidente, il nostro sistema economico attuale, sta riuscendo dove mille guerre avevano fallito. Si sta auto-costituendo come unico orizzonte ultimo di valore possibile. La Cina di adesso è la stessa Cina di Mao? Il Giappone della tradizione, storico, non è finito dopo la rivoluzione Meiji? Cosa è stato dell’intero continente africano dopo l’incontro con l’Europa?

Con questo non si auspica certamente un ritorno a un feudalesimo moderno, a una chiusura globale. Sarebbe peraltro ipocrita da parte mia, che mi sono sempre abbandonato al loto del viaggio. Manca però forse ancora una riflessione seria, un ripensamento: cosa è rimasto del passato? Il retaggio terminologico che ci viene tramandato sta diventando obsoleto: culture, tradizioni, identità. Cosa significano questi termini ora, di fronte a un’omogeneizzazione sottile, forzata e volontaria allo stesso tempo? (e questo al di là dei giudizi di valore, che sono qui irrilevanti). Questo allora può essere il vero fine del viaggiare: partire, ricordare, salvare.

A Hong Kong, comunque, hanno capito qualcosa di noi. Ci chiamano Gwailou (鬼佬), uomini fantasma. Ancora è da capire se per via del colore pallido della pelle o perché portiamo con noi i nostri fantasmi, del passato e del presente.

di Andrea Gallucci

 

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